Fedor M. Dostoevskij

da Ricordi dal Sottosuolo (1864)
Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1975, pp. 25, 48, 49, 54, 55, 56, 158

“Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. […] sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia.”
“[…] non dobbiamo stancarci di ripetere a noi stessi che la natura non ci consulta in nessun momento e in nessuna circostanza; che bisogna prenderla com’è, e non secondo le nostre fantasie […]”
“Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, non se ne discute, ma la ragione è soltanto ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinativa dell’uomo, laddove il volere è manifestazione di tutta la vita […] è per esempio del tutto naturale che io voglia vivere soddisfacendo a tutte le mie facoltà vitali e non alla sola facoltà raziocinativa, ossia alla ventesima forse parte delle me facoltà vitali. Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto quello che le è riuscito di conoscere (e magari certe cose non le conoscerà mai; questo non è forse edificante, ma perché nasconderselo?) […]”
“Dal formicaio le rispettabili formiche hanno cominciato, e col formicaio certamente finiranno, il che torna a grande onore della loro perseveranza e della loro posatezza.”
“[…] la meta da raggiungere […] non può esser altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro non è più la vita, signori, bensì il principio della morte. […] Son magari d’accordo che due più due quattro sia una bellissima cosa; ma […] anche due più due cinque è talvolta una cosuccia graziosissima.”
“[…] secondo me la coscienza è per l’uomo la più grande disgrazia, so però che l’uomo l’ha cara e non la scambierebbe colle maggiori soddisfazioni.”
“A noi ci pesa persino d’essere uomini, uomini dotati d’un vero, d’un proprio corpo e d’un proprio sangue; ci vergogniamo di questo, lo riteniamo un’ignominia e aspettiamo di diventare non so che inauditi esseri astratti. […] Presto inventeremo la maniera di nascere dall’idea.”

da L’Idiota (1868-69)
Newton Compton, Roma 2017, parte III, cap. VII, p. 351

“Durante una giornata limpida e piena di sole andò verso i monti, tormentato da un pensiero vago e inafferrabile. In alto il puro azzurro del cielo, in basso un lago, tutt’intorno la curva sterminata dell’orizzonte. Il principe [il protagonista del romanzo, N.d.R.] guardava. Guardava e si rodeva. Distendeva le braccia verso l’azzurro lontano del cielo e piangeva. Piangeva perché si sentiva estraneo alla festa a cui stava partecipando tutto il creato. Un autentico banchetto, una gioia senza fine che lo attirava, che lo aveva sempre attirato ma a cui lui non poteva prendere parte. Il sole, limpido e splendente, sorgeva tutte le mattine; tutte le mattine, l’arcobaleno rifletteva la sua curva sulla cascata; tutte le sere, la più alta vetta di quel monte, ai confini del cielo, bruciava al calore purpureo del sole al tramonto; ogni moscerino che gli ronzava intorno prendeva parte a quel coro di letizia: conosceva il suo posto, lo amava e ne era felice; ogni filo d’erba che lo circondava cresceva e dava senso alla propria vita! Ogni cosa, ogni essere ha una strada da seguire e la percorre, cantando: solo lui non sapeva nulla e non capiva niente, né la parola degli uomini, né le voci degli animali; solo a lui, estraneo a tutto, la natura era matrigna.”

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