di Bruno Sebastiani
Il 15° secolo si concluse con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.
Normalmente con tale data si ritiene terminata l’”età di mezzo” ed in fase di avvio quella “moderna”.
Come considerare l’incontro / scontro tra gli europei “civilizzati” e gli aborigeni del Nuovo Continente?
I primi indubbiamente rappresentavano, nell’ottica dello studio che stiamo portando avanti, quel progresso di arti, scienza e tecnica che ancora oggi domina a livello planetario.
I secondi non appartenevano ad un’unica etnìa, ma ad una pluralità di popoli contraddistinti da livelli culturali assai differenti da area ad area. Molti di loro (Maya, Incas, Aztechi) avevano raggiunto importanti conoscenze in determinati settori, come l’astronomia e la matematica). Ma nel complesso il loro sapere era ben inferiore rispetto a quello dell’uomo europeo e, soprattutto, la loro tecnica non aveva raggiunto i livelli di quella sviluppata nel Vecchio Continente.
La riprova della fondatezza di queste osservazioni si ebbe nel tragico esito dello scontro tra “conquistadores” e “cow-boys” da una parte e nativi americani dall’altra: i primi vinsero su tutta la linea, i secondi furono sterminati e le loro civiltà spazzate via.
Il cammino del progresso in questo caso non fu certamente indolore e gli sconfitti possiamo immaginarli come i suoi oppositori.
Indipendentemente dalle vicende belliche, vi è da dire che i nativi americani avevano ovunque dato vita a società di tipo sacrali, mentre l’uomo europeo era già sulla via della desacralizzazione e stava sviluppando modelli sociali sempre più basati sulla ragione e sulla fede nel progresso tecnico-scientifico.
Questa era la realtà così come noi possiamo percepirla oggi. All’epoca, dai primi viaggi di Amerigo Vespucci in avanti, gli esploratori del Nuovo Mondo e gli intellettuali giudicarono invece gli aborigeni come “uomini di natura”, privi di Dio e di fede nel soprannaturale. Il fraintendimento, per dirimere il quale fu necessaria nei secoli successivi l’opera di esimi antropologi, condusse, come è ben noto, alla conquista forzata delle terre dei nativi e al tentativo anche di conquistarne le anime, attività quest’ultima demandata ai missionari d’ogni congregazione, dai gesuiti ai francescani.
Il cammino del progresso richiede che dai pantheon delle tante divinità si passi al monoteismo, e poi che il solo Dio rimasto al centro di ogni culto venga sostituito da una “causa prima”, da un “motore immobile”, da un “grande architetto”, fin quando anche queste entità scompaiono per lasciare la supremazia alla sola ragione umana.
Per inciso, una delle poche voci che si elevarono contro l’opera di conquista e sottomissione delle popolazioni del Nuovo Mondo fu quella di Giordano Bruno, che nel 1584 scrisse:
«Gli Tifi (i novelli argonauti, n.d.a.) han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per il commerzio radoppiar i diffetti e gionger vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi al fin più saggio quel che è più forte …» (G. Bruno, La Cena delle Ceneri, in Opere Italiane, Novara, De Agostini Libri, 2013, p. 452)
Significativo è il fatto che questa rara voce dissonante sia poi stata tacitata nel rogo di Campo de’ Fiori.
Fino a metà del ‘700 ben poche altre voci si levarono a difesa degli aborigeni, sprezzantemente definiti selvaggi, barbari, incivili.
Poi il ginevrino Jean Jacques Rousseau osò condannare il progresso e l’avvento della ragione in nome del cosiddetto “mito del buon selvaggio”. In realtà egli prese in considerazione tutta l’evoluzione dell’uomo, dall’uscita dallo “stato di natura” alle sue successive sembianze e capacità intellettuali. E descrisse ogni passaggio per quello che fu, e cioè un continuo peggioramento man mano che dall’”uomo naturale” ci si incamminò verso l’”uomo artificiale”.
Queste considerazioni furono espresse in due celebri Discorsi, il primo del 1749, il secondo del 1754, scritti in risposta ad altrettanti quesiti posti dall’Accademia di Digione.
Nel secondo, in particolare, la critica all’avvento della ragione e ai danni da essa causati è condotta in modo assai puntuale, sino ad affermare che:
«… la maggior parte dei nostri mali sono opera nostra, e … li avremmo evitati quasi tutti conservando la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura.»
«Se essa ci ha destinati a essere sani, oserei quasi assicurare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l’uomo che medita è un animale depravato.» (J.J: Rousseau, Discorsi, Milano, BUR, terza edizione, luglio 2015, p. 102).
Anche in altre opere Rousseau ribadisce il suo biasimo nei confronti della ragione umana. L’”Emilio o dell’educazione”, del 1762, si apre con questa frase:
«Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo. Egli (l’uomo, n.d.a.) sforza un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare i frutti di un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la deformità, i mostri; non vuol nulla come l’ha fatto la natura, nemmeno l’uomo …» (J.J. Rousseau, Emilio, Bari, Editori Laterza, 2016, p. 51)
Dunque il nome di Rousseau può essere inserito nella schiera di coloro che si opposero al cammino del progresso?
In realtà la vasta opera del pensatore ginevrino non è univoca a questo proposito.
Rousseau, infatti, dopo aver affrontato nei suoi primi scritti l’argomento di maggior peso (l’infausto allontanamento dell’uomo primitivo dallo stato di natura), ha poi concentrato la sua attenzione su argomenti meno rilevanti, quali un romanzo epistolare di intonazione amorosa (“Giulia o la nuova Eloisa”), un saggio sulle norme che devono regolare la società (“Il Contratto Sociale”) e un altro sull’educazione (“Emilio, o dell’educazione”, per citare le opere più famose).
In nessuna di esse egli proseguì e approfondì la trattazione dell’argomento da cui prese avvio la sua attività speculativa, e cioè la constatazione che l’essere umano allontanandosi dallo stato di natura andò via via peggiorando la propria condizione.
Qua e là in ognuna di queste opere troviamo accenni a tale constatazione (ho già ricordato la frase con cui si apre l’“Emilio”), ma quasi come accenni marginali rispetto ai nuovi contenuti che sviluppa, nei quali accade anche di trovare concetti che contraddicono la ferrea critica condotta nei “Discorsi”.
Sempre in “Emilio” ad esempio troviamo frasi come queste:
«Il capolavoro di una buona educazione è di fare un uomo ragionevole…» (J.J: Rousseau, Emilio, cit. p. 100)
«Nobiltà del lavoro produttivo» (ibidem, p. 162, titolo del paragrafo 9 del capitolo terzo)
«… l’agricoltura è il primo mestiere dell’uomo: è il più onesto, il più utile, e di conseguenza il più nobile che egli possa esercitare.» (ibidem, p. 165)
«L’uomo è il re della terra che abita … ciò suscita un sentimento di riconoscenza e di benedizione per l’autore della mia specie …» (ibidem, p. 198)
Ma come? Non è stato il conseguimento dello stato di essere ragionevole a corrompere la nostra condizione primigenia di felice innocenza?
Non è stata l’agricoltura a indurre l’essere umano a fare violenza alla natura?
L’autore delle specie non aveva realizzato un mondo in cui tutti gli esseri viventi coabitassero in armonia, sin quando ci siamo arrogati arbitrariamente il titolo di re della terra?
È vero che, giunti al punto in cui il progresso ci ha condotti, dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco, ma sinceramente i toni usati da Rousseau appaiono qui più di condivisione che di rassegnata accettazione dei danni provocati dal progresso medesimo.
Più sopra ho scritto che l’opera speculativa di Rousseau prese avvio dalla constatazione che l’essere umano allontanandosi dallo stato di natura andò peggiorando la propria condizione.
Ecco, nonostante gli egregi e puntuali approfondimenti contenuti nel secondo “Discorso” su tale argomento, il vizio originario del pensiero di Rousseau è stato di riferire sempre e comunque l’utile e il danno (il bene e il male, il positivo e il negativo) alla condizione umana, non a quella della natura tutta.
Egli cioè non ha osservato la realtà da un punto di vista geocentrico: è sempre rimasto un inguaribile antropocentrico, e lo ha dimostrato dedicando la sua opera più tarda a dimensioni e attività squisitamente umane, accantonando colpevolmente i problemi maggiori affrontati nelle prime opere.
Se io appuro che il mio intelletto anziché essere orientato al bene di tutti gli esseri viventi (compresi quelli della mia specie) è volto alla loro perdizione, come posso poi dedicare la mia attenzione ad altre questioni, di importanza incommensurabilmente minore?
Ma al di là di queste incongruenze rimane a Rousseau il grande merito di aver attirato l’attenzione dei suoi contemporanei e dei posteri sulla condizione dell’“uomo di natura”, il quale, ancora immune dalla malattia del progresso, viveva in armonia con la biosfera in cui era immerso.
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Pubblicato su “Che vi do?” N. 91 Dicembre 2018, organo della Società Pane Quotidiano
Un pensiero riguardo “Il cammino del progresso e i suoi oppositori – 3 – La scoperta del Nuovo Mondo e il mito del buon selvaggio”